Ceto medio, in Italia c’è rischio declassamento: “Impegno e competenze non sono premiati”
- 21/05/2024
- Popolazione
Si assiste da tempo a una lenta erosione del ceto medio italiano, “ma ora il fenomeno è accelerato, e si rischia di perdere il pilastro della nostra società e il fondamento della nostra economia”. A sostenerlo è il Censis che ha pubblicato un report sul ‘Ceto medio italiano’. È emerso che, oggi, il 60,5% degli italiani si sente di appartenere a questo tipo di “categoria”. Ma sembra non essere solo una questione reddituale, ma relativa “all’identità e allo status sociale percepito”. Con il termine ‘ceto medio’, in passato, significava sentirsi parte di un movimento collettivo in ascesa. Oggi prevale la percezione di un declassamento socioeconomico: il 48,8% vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% ha la convinzione di un concreto blocco della mobilità verso l’alto. Ma scopriamo insieme in che direzione si sta dirigendo la classe media nazionale.
Il ceto medio a rischio crisi
I dati emersi dal Rapporto Cida-Censis, “Il valore del ceto medio per l’economia e la società” ha l’obiettivo di “comprendere qual è la percezione del Paese rispetto a quella classe intermedia, né ricca né popolare, che dal ‘miracolo economico’ in poi ha rappresentato il nostro cuore produttivo, e dare urgentemente voce a quasi metà della popolazione che sta vivendo una fase di declassamento e non è adeguatamente ascoltata”, ha spiegato il presidente di Cida, Stefano Cuzzilla.
Ciò che è chiaro è che il Pil italiano è cresciuto del 40% tra gli anni Settanta e Ottanta e del 25% nel decennio successivo e, così, fino alla fine degli anni Novanta. Poi un crollo pari al +3,5% nel quadriennio 2019-2023. Con il Pil è cambiata la situazione economica del Paese e dei cittadini. Dalla globalizzazione fino ai cambiamenti tecnologici, l’asse del redito ha seguito economie emergenti svuotando le strutture “produttive dei Paesi più avanzati che hanno perso occupazione di qualità, in termini di retribuzione e tutele. Eloquente il dato sulle famiglie: in un ventennio, dal 2001 al 2021 il reddito pro-capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7%, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%”, si legge nel report.
La paura del declassamento è diventata, perciò, un vero e proprio rischio, che ha generato una propensione a difendere il proprio status quo più che a migliorarsi, con la convinzione che l’andamento del benessere nel tempo sia decrescente. Un’idea radicata nella pancia sociale del Paese, condivisa in pieno dalla maggioranza netta di persone che si sente parte del ceto medio: il 66,6% degli italiani (il 65,7% del ceto medio) è convinto che le generazioni passate vivevano meglio e il 76,1% degli italiani (75,1% del ceto medio) ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.
“A me – ha sottolineato con forza Cuzzilla – preoccupa soprattutto questa assenza di speranza nel futuro se le aspettative calano, se non si crede più di poter migliorare la propria condizione, se si ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali, sarà il Paese intero a pagare un prezzo altissimo. E’ nostra responsabilità, come manager e come società civile, rispondere a questo cambiamento e intercettarne i bisogni prima che sia troppo tardi. Significa investire per avere un sistema costruito sulla triade più alto benessere economico – più alti consumi – aspettative crescenti. Mentre oggi siamo in questa situazione: meno benessere economico – consumi ridotti – aspettative pessimistiche. Solo valorizzando l’impegno nel lavoro, il talento, le conoscenze e le competenze, è possibile riattivare i meccanismi di crescita”.
Previsioni future
Mentre quasi il 60% degli italiani pensa che impegno e capacità non vengano adeguatamente premiati, sale all’81% chi pensa sia giusto che chi lavora di più abbia guadagni maggiori, così come un 73,7% ritiene legittimo e giusto che una persona talentuosa e capace possa diventare ricca (75% del ceto medio).
E per il futuro, gli scenari sono diversificati: alle complessità del contemporaneo, a processi epocali di transizione relativi alle nuove tecnologie o alla sostenibilità, l’87,1% degli italiani è convinto che solo un innesto massiccio e capillare di culture e pratiche manageriali potrà consentire quell’upgrading di funzionalità che oggi è richiesto al sistema Paese Italia. “Per l’82,7% il bravo manager nelle aziende e negli enti è colui che sa trascinare e motivare gli altri. Per l’84,4% degli italiani una più alta efficienza di imprese e Pubblica amministrazione richiede dirigenti fortemente orientati a premiare i più meritevoli ad ogni livello. In fondo già oggi il valore dei dirigenti si vede in molti ambiti complessi: l’85,8% delle famiglie è convinto che, se una scuola è ben gestita sul piano organizzativo, è più facile che garantisca anche buone performance didattiche e il 62,2% crede che avere manager come dirigenti nel servizio sanitario è un fattore di garanzia per i pazienti”, si legge nel report Censis.
Cosa resta del ceto medio?
Non resta che chiedersi cosa resterà del ceto medio nei prossimi anni. La definizione, come abbiamo visto, non è solo legata al reddito. Sentirsi ceto medio è compatibile a disponibilità reddituali che variano dai 15mila ai 50mila euro annui. L’appartenenza è più influenzata da fattori come titolo di studio e condizione professionale. Anziani e pensionati, ad esempio, hanno manifestato la propria percezione di sentirsi legati a questo livello della stratificazione sociale che tende sempre più ad assottigliarsi.
Infine, la condizione economica reale delle persone, anche con un reddito lordo superiore a 50 mila euro all’anno, può essere influenzata da vari fattori, come lo stato di salute e la proprietà o meno della casa. Pertanto, un welfare inclusivo e universalistico è fondamentale per garantire anche le famiglie con redditi più alti dal rischio di subire un taglio drastico del benessere economico in presenza di eventi avversi. Nel corso della storia sociale italiana, il welfare pubblico è stato un elemento costitutivo della condizione socioeconomica del ceto medio e su quello, lo Stato continuerà a investire.