Parità tra uomo e donna? Forse nel 2148
- 13 Giugno 2025
- Mondo
Serviranno ancora 123 anni per chiudere definitivamente il divario di genere a livello globale. Lo afferma con la freddezza dei numeri il “Global Gender Gap Report 2025” del World Economic Forum. Una stima che segna sì un miglioramento rispetto all’anno precedente – si guadagna un decennio rispetto ai 133 anni del 2024 – ma che continua a raccontare un mondo in cui la parità tra uomini e donne resta, sostanzialmente, un obiettivo lontano. L’indice complessivo di chiusura del divario si attesta oggi al 68,8%: in pratica, oltre il 30% del gap resta ancora da colmare.
I numeri, se disaggregati, dicono molto. La parità è quasi raggiunta nei settori della salute (96,2%) e dell’istruzione (95,1%). Ma i passi più lenti – e politicamente più significativi – si registrano in due aree decisive: partecipazione economica (61%) e potere politico (22,9%). Quest’ultima, in particolare, rappresenta il ritardo più grave e al ritmo attuale richiederà ben 162 anni per essere colmata. Non è solo una questione di rappresentanza formale: il peso politico è ancora in larga parte appannaggio maschile, con ricadute dirette sulle priorità politiche, gli investimenti pubblici e la definizione dei diritti.
In cima alla classifica globale si confermano dieci paesi che hanno superato l’80% di parità. L’Islanda resta in vetta per il sedicesimo anno consecutivo, seguita da Finlandia, Norvegia, Regno Unito, Nuova Zelanda, Svezia, Repubblica di Moldova, Namibia, Germania e Irlanda. Si tratta di contesti molto diversi per geografia, reddito e struttura politica, ma accomunati da strategie sistematiche: investimenti in servizi pubblici, congedi parentali condivisi, obblighi di rappresentanza paritaria, monitoraggio sul divario retributivo. L’approccio non è lineare, ma coerente: dove si governa la parità con politiche attive, il divario si riduce.
All’estremo opposto, il ritardo resta drammatico. Nella parte più bassa della classifica si collocano paesi come Mali, Algeria, Niger, Repubblica Democratica del Congo, Guinea, Iran, Ciad, Sudan e, in ultima posizione, il Pakistan, con un punteggio complessivo di 0.567. In molti di questi paesi, la presenza femminile nelle istituzioni è pressoché nulla, la partecipazione economica marginale e l’accesso all’istruzione ancora diseguale. Il gap non è solo quantitativo, ma culturale e strutturale.
E anche in Europa, la distribuzione è tutt’altro che uniforme. L’Italia, con un punteggio di 0.704 e la 85esima posizione, è tra gli ultimi in area Ue. Peggio fanno solo pochi paesi: Macedonia del Nord, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Turchia. È un dato che colloca l’Italia ben lontano dalla media europea, confermando che il progresso nei diritti formali non si è tradotto in risultati sostanziali. Ma il dato forse più emblematico arriva dall’Asia: il Bangladesh, grazie a riforme sul lavoro femminile e misure mirate alla leadership politica, ha guadagnato 75 posizioni in un solo anno, dimostrando che i cambiamenti sistemici sono possibili. Il divario si può colmare: ma richiede scelte politiche, non automatismi.
Italia, 85esima su 146: la parità resta lontana
Nel contesto di questo scenario globale, l’Italia registra numeri che confermano un problema cronico, non episodico. Con un punteggio complessivo di 0.704, si colloca all’85° posto su 146 paesi. Guadagna appena due posizioni rispetto al 2024 (+0,001 nel punteggio), ma resta saldamente nella metà bassa della classifica. Tra le economie avanzate, è uno dei peggiori performer. I dati più critici arrivano dalla partecipazione economica e opportunità, con un punteggio di 0.599 e una posizione globale 117esima. Le donne italiane continuano ad avere tassi di occupazione tra i più bassi d’Europa, retribuzioni inferiori, carriere più brevi e accesso limitato ai ruoli apicali. In sostanza, anche quando lavorano, sono meno pagate, meno promosse e più penalizzate.
Sul fronte politico la situazione non migliora granché: 0.255 il punteggio per l’empowerment politico, corrispondente alla 65esima posizione globale. Nonostante la presenza di una donna alla guida del governo, la rappresentanza femminile nelle istituzioni non si è consolidata. Nei ministeri strategici, nelle commissioni parlamentari chiave, nei partiti stessi, la distribuzione del potere resta marcatamente sbilanciata. Il problema non è solo numerico, ma strutturale: mancano meccanismi che favoriscano accesso, permanenza e avanzamento delle donne nella sfera decisionale.
Eppure, l’Italia eccelle proprio dove il divario è già quasi chiuso a livello globale: istruzione e salute. Il Paese ha colmato rispettivamente il 99,8% (51esima posizione) e il 96,6% (89esima posizione) del gap in questi ambiti. Le donne italiane sono più istruite degli uomini, con una maggiore incidenza nei titoli universitari e nei livelli formativi superiori. Ma questo vantaggio non si traduce in occupazione, reddito o influenza. È il classico paradosso italiano: si forma capitale umano qualificato che poi viene disperso, sottoutilizzato o estromesso dal ciclo economico attivo.
Il report evidenzia che i paesi in miglioramento – come Estonia, Repubblica di Moldova o Messico – adottano politiche coordinate e vincolanti: congedi paritari, servizi di cura accessibili, incentivi fiscali per la partecipazione femminile, obblighi di rappresentanza. L’Italia, invece, continua a operare in modo frammentato: un bonus una tantum qui, un incentivo parziale là, senza un disegno strategico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il gender gap non solo persiste, ma si cronicizza. E questo ha un costo diretto in termini di Pil, produttività e tenuta sociale.
La parità economica resta lontana
Uno dei paradossi più rilevanti del Gender Gap Report 2025 riguarda il mercato del lavoro: le donne, nonostante abbiano raggiunto (e in molti casi superato) gli uomini nei livelli di istruzione terziaria, restano largamente sottorappresentate nel lavoro retribuito e ancora di più nelle posizioni di vertice. Solo il 29,5% dei dirigenti con formazione universitaria è donna. Le donne guadagnano meno, hanno meno accesso ai settori a più alta remunerazione, e interrompono più spesso la carriera per motivi legati alla cura familiare. Un dispendio enorme di capitale umano.
L’indice evidenzia che il divario nella partecipazione economica si è ridotto solo del 5,6% negli ultimi 19 anni, con una proiezione di chiusura entro 135 anni. Siamo davanti a un’impasse sistemica, che rende inefficace persino l’aumento del capitale formativo femminile. Non è solo una questione di accesso, ma di progressione: la presenza femminile crolla man mano che si sale nella gerarchia aziendale. A questo si aggiunge una segregazione settoriale: le donne restano prevalentemente impiegate nei comparti a minor reddito come sanità, istruzione e servizi alla persona, mentre restano marginali in ambiti come tecnologia, infrastrutture e finanza.
I dati raccolti da LinkedIn e analizzati nel report mostrano che la crescita della presenza femminile in settori tradizionalmente maschili è lenta. E anche dove cresce (come nell’infrastruttura, +8,9 punti percentuali), non si traduce automaticamente in equità salariale o accesso a ruoli di leadership. Il gap di reddito, infatti, resta uno dei più resistenti: in alcuni paesi le donne guadagnano meno di un terzo rispetto agli uomini. Il mondo del lavoro, insomma, non solo non ha ancora colmato il divario, ma in molte aree continua a riprodurlo attivamente.
Il potere politico è ancora maschile
Il fronte politico è quello in cui il gender gap si mostra in tutta la sua lentezza: solo il 22,9% del divario globale risulta colmato, ed è la dimensione più indietro di tutte. Le donne restano una netta minoranza nei parlamenti, nei governi e – soprattutto – ai vertici esecutivi. Soltanto in nove economie su 148 le donne hanno raggiunto almeno la metà del potere politico. E in quasi la metà dei paesi non c’è mai stata una donna a capo del governo negli ultimi 50 anni.
L’Islanda fa scuola, con il 95,4% del gap politico colmato, seguita da Finlandia, Norvegia e Svezia. In coda, invece, troviamo Vanuatu (0,6%) e diversi paesi del Medio Oriente e del Sud-est asiatico dove la presenza femminile nei ministeri chiave – economia, difesa, infrastrutture – è pressoché nulla. Questo squilibrio ha conseguenze profonde: l’assenza delle donne nei ruoli di potere incide sulle priorità politiche, sulle leggi in materia di welfare, sulle strategie economiche e persino sugli stanziamenti per l’istruzione o la salute.
A rallentare il progresso non è tanto la mancanza di norme, quanto l’assenza di meccanismi di attuazione. Anche in economie con buone leggi sulla parità, l’“implementation gap” – la distanza tra regole e realtà – resta ampio. Per chiudere il divario, il Wef sottolinea che non basta legiferare: servono politiche attive, quote nei partiti, fondi pubblici dedicati, accesso paritario al finanziamento politico. Solo così si possono modificare strutture storicamente escludenti. Eppure, il rischio è che senza scosse sistemiche, la lentezza attuale condanni il mondo ad attendere quasi due secoli per una rappresentanza realmente equa.
Il talento resta sprecato
Sul piano dell’istruzione, il gender gap globale è praticamente chiuso: il 95,1% è stato colmato. In molti paesi – inclusi tutti quelli europei e nordamericani – le donne superano gli uomini nelle iscrizioni universitarie. Tuttavia, questo traguardo nasconde una realtà ambivalente: l’eccellenza formativa femminile non si traduce in partecipazione equa al mercato del lavoro o alla leadership. Il talento, in sostanza, resta sprecato.
Il “drop-to-the-top” è il fenomeno per cui, pur partendo da livelli simili (o superiori) di istruzione, le donne scompaiono man mano che si sale nella gerarchia professionale. Le barriere strutturali e culturali restano intatte, soprattutto nei settori Stem, dove la rappresentanza femminile è ancora residuale. In Africa sub-sahariana, ad esempio, solo tre paesi hanno superato il 50% di parità nell’iscrizione universitaria, ma anche nei paesi con piena parità il tasso di occupazione femminile in ambito tecnico-scientifico resta inferiore.
Il report evidenzia anche una crisi nascosta: la salute delle donne, misurata in termini di anni di vita in buona salute, sta peggiorando rispetto a quella maschile. Il dato potrebbe sembrare secondario, ma ha implicazioni rilevanti per la qualità e durata della partecipazione economica e sociale delle donne. A ciò si aggiungono carichi di cura non retribuiti, interruzioni di carriera e minore accesso ai benefit aziendali: tutte dinamiche che si sommano a disegnare un quadro di partecipazione femminile fragile e discontinua.
Infine, il dato forse più significativo: nei paesi ad alto reddito, il 99% del gap educativo è colmato, ma nessuno ha chiuso più dell’85% del divario economico. Questo conferma che l’istruzione da sola non basta. Senza un cambiamento profondo delle regole di ingaggio nel lavoro e nella politica, il talento femminile resterà sottoutilizzato. Un’occasione persa non solo per l’equità, ma anche per la crescita e l’innovazione economica globale.