Dalla genetica alla dipendenza da schermi, salute e rischi si decidono nei primi 1000 giorni di vita
- 25 Giugno 2025
- Giovani Talk | Demografia: patto tra generazioni
La salute si scrive prima ancora della nascita, in quel segmento di tempo invisibile alla maggioranza delle politiche sanitarie, ma decisivo per l’intero arco della vita. Ne è convinto il presidente della Società Italiana di Pediatria, Rino Agostiniani, intervenuto al convegno “Demografia, un patto fra generazioni” organizzato da Adnkronos Q&A.

Nel suo intervento, Agostiniani ha portato sul tavolo due questioni cruciali: la sottovalutata centralità dei primi mille giorni di vita e la crescita esplosiva delle dipendenze digitali fra i giovani. Due temi apparentemente lontani, ma uniti da un’unica matrice: il bisogno urgente di ripensare l’educazione e la cura nella fascia d’età più vulnerabile, l’infanzia e l’adolescenza.
Ecco perché i primi 1000 giorni sono fondamentali
“Quello che succede nei primi mille giorni di vita può cambiare tutto, anche il nostro Dna” ha spiegato Agostiniani. Non è una questione teorica. Non è una suggestione biologica buona per le aule universitarie. È una realtà scientifica che parla di prevenzione, salute pubblica e investimenti sociali nel senso più pragmatico del termine. I primi mille giorni di vita – dal concepimento al compimento dei due anni – rappresentano un crocevia decisivo: in quel periodo si formano le basi metaboliche, neurologiche e persino comportamentali dell’essere umano. E se qualcosa va storto, gli effetti possono estendersi lungo l’intero arco della vita. In certi casi, persino oltre, raggiungendo le generazioni successive.
Una visione che impone un cambio di passo alle politiche sanitarie e sociali, troppo spesso concentrate sull’intervento tardivo, a valle del problema, invece che sulla vera frontiera della prevenzione: la primissima infanzia.
“Non siamo solo ciò che ereditiamo, siamo soprattutto ciò che viviamo nei primi giorni della nostra esistenza”, ha spiegato Agostiniani, riportando l’attenzione su un dato ancora troppo sottovalutato anche dai decisori pubblici. “Durante la gravidanza e nei primi due anni, l’interazione tra ambiente, alimentazione e stili di vita può accendere o spegnere specifici geni. E una volta attivati o silenziati, quei geni rimarranno così per tutta la vita”.
In altre parole, l’epigenetica – ovvero i meccanismi che regolano l’espressione dei geni – è altamente sensibile a stimoli ambientali nei primi mille giorni. È qui che si pongono le basi, ad esempio, per una predisposizione o una protezione nei confronti di patologie croniche come l’obesità, il diabete di tipo 2, la sindrome metabolica e persino alcune malattie neuropsichiatriche. Non è una scoperta recente, ma è una verità ancora largamente trascurata nei piani di prevenzione del sistema sanitario.
“Dobbiamo smettere di pensare alla salute come qualcosa che si costruisce a 50 anni con un check-up”, ha detto Agostiniani. “È nei primi mesi che si può davvero fare prevenzione. L’intervento in età adulta ha un impatto molto più ridotto. Se vogliamo allungare l’aspettativa di vita in buona salute, dobbiamo partire da lì”.
Le variabili in gioco sono molteplici: l’alimentazione della madre durante la gravidanza, l’allattamento, l’uso (spesso eccessivo) di antibiotici nei neonati, l’esposizione a fattori di stress, ma anche il contesto familiare e socioeconomico. Si tratta di elementi che spesso vengono considerati marginali, ma che – documenta ormai una robusta letteratura scientifica – incidono profondamente sulla traiettoria della salute futura.
L’illusione dell’infanzia connessa
Ma se i primi 1000 giorni richiedono attenzione e protezione, cosa succede subito dopo? La transizione verso l’infanzia, oggi, avviene sotto il segno di un’altra dinamica distorta: la precoce esposizione al mondo digitale. “Vedere bambini di un anno che interagiscono con tablet e smartphone non è solo un’abitudine sbagliata: è una potenziale emergenza educativa e sanitaria”, ha ammonito Agostiniani. La questione della dipendenza digitale – che esplode in adolescenza – in realtà si innesta su un terreno già compromesso fin dalla prima infanzia.
Oggi la presenza degli schermi nella vita dei bambini è pervasiva. Bastano pochi minuti in un bar o in un ristorante per notare un pattern sempre più diffuso: al primo capriccio, il bambino riceve uno smartphone. Uno strumento tecnologico usato come surrogato dell’attenzione genitoriale. Un’abitudine che – secondo i dati raccolti dalla Sip – impatta negativamente non solo sulla vista e sulla postura, ma anche sullo sviluppo cognitivo e relazionale dei bambini.
“Non è solo una questione di tempo trascorso davanti agli schermi”, precisa Agostiniani. “È il tipo di stimolazione che questi dispositivi forniscono: passiva, rapida, iper-eccitante. In età precoce, il cervello ha bisogno di interazioni reali, tridimensionali, affettive. Quelle che si creano con un adulto presente, non con un algoritmo”.
Il risultato? Una generazione di bambini sempre più fragile, sempre meno pronta ad affrontare la complessità della vita reale. Con ricadute che diventano evidenti nell’adolescenza, ma che affondano le radici ben prima.
“Non esiterei a definire la dipendenza digitale una delle sfide educative e sanitarie più esplosive della nostra epoca”, ha dichiarato il presidente Sip. Secondo Agostiniani, si tratta di una vera e propria forma di dipendenza che, sebbene priva di sostanza chimica, ha effetti paragonabili a quelli dell’abuso di alcol o droghe: isolamento, perdita del senso della realtà, ansia, depressione.
I social network, i giochi online, la pornografia accessibile h24: il mondo digitale offre ai ragazzi una realtà parallela, costruita per massimizzare il coinvolgimento e ridurre la soglia di noia. Il problema non è l’uso, ma l’abuso. “Oggi abbiamo adolescenti che non riescono più a stare senza una connessione costante. Questo compromette non solo il rendimento scolastico, ma soprattutto la costruzione dell’identità e dell’autostima. Non imparano più a fronteggiare la frustrazione, a sviluppare resilienza, a costruire relazioni sane”, ha denunciato Agostiniani.
Ma il vero nodo – secondo la Sip – è la rimozione collettiva che circonda il fenomeno. “A differenza delle droghe, il digitale viene considerato innocuo, persino educativo. Invece dobbiamo iniziare a trattarlo come una forma di dipendenza a tutti gli effetti. Servono strumenti diagnostici, percorsi terapeutici, ma soprattutto consapevolezza culturale”.
Il ruolo chiave dei genitori nell’educazione digitale
A fronte di un problema strutturale, il presidente Sip chiama in causa anche la responsabilità individuale delle famiglie. “I genitori devono smettere di delegare agli schermi l’educazione dei propri figli”, ha affermato Agostiniani con tono fermo. “Il primo passo è dare l’esempio. Se un bambino vede i genitori costantemente incollati al cellulare, interiorizzerà quel comportamento come normale. Le parole servono a poco se non sono accompagnate dai fatti”.
Ecco allora alcune regole semplici, ma fondamentali:
- Nessun utilizzo di smartphone o tablet nei primi due anni di vita.
- Dai 2 ai 5 anni, massimo un’ora al giorno di schermo.
- Dai 6 anni in poi, mai oltre le due ore al giorno, con contenuti selezionati e supervisionati.
“Non si tratta di demonizzare la tecnologia”, ha chiarito Agostiniani. “Si tratta di utilizzarla in modo consapevole, rispettando le fasi di sviluppo del cervello. Un bambino piccolo ha bisogno di giocare, toccare, esplorare, parlare. Ha bisogno di tempo di qualità con gli adulti”.
Questo tipo di educazione – ha sottolineato – non può essere delegata a scuola o alle istituzioni. Deve partire dalla famiglia, con il supporto di pediatri, educatori e operatori sociali. È una sfida culturale che riguarda tutti, perché dalla qualità dell’infanzia di oggi dipende la stabilità emotiva e relazionale degli adulti di domani.