Quando il gioco diventa un problema urbano: il caso Olginate
- 11/04/2025
- Giovani
Olginate, provincia di Lecco. Un cartello nella piazza principale vieta ai bambini di giocare a pallone. “La quiete e il decoro sono diritto di tutti”, si legge. “Sono vietati gli schiamazzi, il gioco del pallone e i giochi rumorosi in genere”. E si rischia una multa fino a 600 euro. Non si tratta di un caso isolato. Diversi comuni italiani – da nord a sud – con apposite ordinanze, di fatto, escludono l’infanzia dagli spazi pubblici. Vietato correre. Vietato urlare. Vietato giocare. Vietato… essere bambini.
In un Paese in cui si discute costantemente del crollo demografico e della “denatalità come emergenza”, l’ambiente urbano diventa spesso ostile proprio verso chi dovrebbe essere più tutelato. Ma cosa raccontano davvero questi divieti? E qual è il loro impatto sul futuro delle comunità?
La geografia dei divieti: casi da nord a sud
Da Milano a Scicli, l’Italia si scopre un Paese dove i bambini devono muoversi in punta di piedi. E non è un modo di dire. A Roma, il Regolamento di Polizia Urbana e del Verde Pubblico vieta l’uso del pallone e dei pattini se rischiano di disturbare altri utenti o danneggiare il verde. Lì si può giocare solo negli spazi appositamente designati. Una norma simile è in vigore a Napoli: il gioco del pallone è considerato pericoloso per la sicurezza urbana e minaccioso per il patrimonio artistico.
A Milano, la stretta arriva con le regole implicite. Le aree gioco sono regolamentate e riservate ai bambini sotto i 12 anni. E fuori da quei perimetri, l’infanzia si dissolve nel grigio del traffico urbano. Lecce ha inserito nel regolamento di polizia urbana il divieto a “praticare giochi di qualsivoglia genere sulle strade pubbliche o aperte al pubblico transito, compresi i marciapiedi e i portici”.
È giusto allora chiedersi se questi divieti non siano anche la conseguenza di un deficit di rispetto verso il bene comune. Forse il problema non è solo nei cartelli, ma nel comportamento che li ha preceduti: rumori eccessivi, incuria, spazi vissuti senza attenzione all’altro. In molte città, lo spazio pubblico è percepito più come un “non luogo” che come un bene condiviso da proteggere. Così, anziché promuovere comportamenti responsabili, si risponde con restrizioni. Ma il punto è proprio questo: senza una cultura diffusa del rispetto – verso le persone, verso l’ambiente, verso le regole – la convivenza si incrina e i bambini diventano il primo bersaglio.
È in questo contesto che l’infanzia viene vista come disturbo urbano.
L’infanzia come disturbo urbano
Nel lessico burocratico, i bambini diventano potenziali “disturbatori”. I giochi si trasformano in “rumori molesti”, le risate in “schiamazzi”. Una narrazione che li ritrae come minaccia all’ordine, piuttosto che come cittadini a pieno titolo. Così, cortili condominiali, piazzette, giardini di quartiere si riempiono di cartelli e ordinanze: silenzio, qui non si gioca. Il cortile del palazzo? Troppo vicino alle finestre. Il prato pubblico? Rovinato dalle scarpe da ginnastica. La bicicletta? Rischia di far inciampare il passante distratto.
L’infanzia urbana, invece di essere accolta, viene respinta verso spazi segregati, a orari stabiliti, sotto la supervisione adulta. Il risultato? Bambini invisibili, compressi in routine scolastiche e digitali, privati della possibilità di esplorare e socializzare liberamente. Una città che tace i giochi è una città che si svuota di vita.
Guardando le nostre città, il messaggio è chiaro: sono pensate per chi lavora, consuma, parcheggia. Non per chi gioca. Marciapiedi stretti, panchine scomparse, parchi chiusi la sera, piazze spopolate: l’urbanistica moderna ha tagliato fuori l’infanzia. Nei piani regolatori, gli spazi pubblici vengono progettati in funzione del controllo, non dell’espressione spontanea. Telecamere, cancelli, cartelli: tutto mira alla gestione, non all’accoglienza. Ma una città che non ospita i bambini è una città destinata al declino.
Quando il gioco è un diritto
Non si tratta solo di buon senso o nostalgia. Il diritto al gioco è sancito da un trattato internazionale: l’articolo 31 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia. “Gli Stati riconoscono al fanciullo il diritto al riposo ed al tempo libero, di dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età”. Parole forti, chiare, troppo spesso ignorate.
Eppure, il gioco non è un capriccio. È una funzione vitale dello sviluppo: fisico, cognitivo, sociale. È nel gioco che i bambini imparano a stare al mondo, a gestire regole, a confrontarsi.
Per fortuna qualche segnale positivo c’è. Modica, in Sicilia, e San Gregorio nelle Dolomiti bellunesi, per esempio, sono due Comuni che hanno affisso cartelli che rovesciano il paradigma: “Attenzione: i bambini giocano ancora per strada”. Un messaggio semplice, ma potentissimo. L’infanzia non è un intralcio alla vita urbana, è parte integrante della cittadinanza.