Antisemitismo 2.0 sui social, a rischio i giovanissimi: l’allarme della Polizia di Prevenzione
- 15 Settembre 2025
- Giovani
Israele prepara l’attacco a Gaza City, con centinaia di tank e blindati schierati, mentre migliaia di palestinesi cercano la fuga. Le tensioni in Medio Oriente hanno un riflesso diretto anche in Europa e in Italia, dove crescono episodi di antisemitismo e si rafforza l’allerta delle istituzioni. A Venezia una coppia di turisti ebrei è stata aggredita a bottigliate al grido di “Free Palestine”. Nelle Marche militari israeliani in vacanza sono stati posti sotto sorveglianza preventiva per prevenire possibili atti antisemiti. Online, intanto, i giovanissimi diventano il bersaglio privilegiato della propaganda d’odio. “I ragazzi pensano che spegnendo il computer certi reati non abbiano più conseguenze” ha avvertito Lucio Pifferi, direttore centrale della Polizia di Prevenzione, intervenendo all’Università Lumsa all’incontro “Il cinema racconta la storia. 1945: il tempo della libertà”.
Un antisemitismo che corre sui social e parla ai più giovani
L’antisemitismo contemporaneo non ha bisogno di comizi, giornali clandestini o simboli appariscenti. Oggi corre sui social, si diffonde attraverso contenuti brevissimi, costruiti per attirare l’attenzione e bypassare qualsiasi filtro critico. TikTok, Telegram, Instagram sono i canali più utilizzati, e lì circolano video di pochi secondi, meme che giocano con simboli, slogan che semplificano la complessità fino a ridurla a colpa collettiva.
“Lo vediamo tutti i giorni con l’uso di strumenti sempre più moderni, veloci, aderenti a quelli che sono i canali e gli strumenti di comunicazione soprattutto delle nuove generazioni” ha detto Pifferi alla Lumsa. La propaganda, spiega, non si rivolge solo a chi ha già un orientamento politico estremo, ma cerca di attirare adolescenti che non conoscono la storia, che non hanno strumenti culturali per decodificare. È qui che il messaggio aggressivo diventa identità: basta poco per convincere un quattordicenne che gli ebrei siano ‘responsabili di tutto’ e che attaccarli non sia agire contro persone reali, ma contro un simbolo.
Il meccanismo è lo stesso che nel Novecento aveva reso possibili persecuzioni e violenze: la disumanizzazione. Ma se allora la macchina dell’odio richiedeva strutture organizzative e canali ufficiali, oggi bastano uno smartphone e una connessione. Un meme ben fatto o un video virale riescono a condensare in dieci secondi quello che un tempo veniva diffuso in comizi o giornali di partito. E in un ambiente dove il like sostituisce la riflessione, la semplificazione diventa il veicolo perfetto.
Dal virtuale al reale
Il rischio più grave è il salto dal virtuale al reale. Un post aggressivo, un commento di scherno o un graffito non restano mai isolati: diventano segnali che legittimano ulteriori azioni. Lo ha spiegato il regista Ruggero Gabbai, intervenuto all’incontro dell’Università Lumsa, raccontando di essere stato recentemente bersaglio di scritte con svastiche e stelle di Davide davanti al suo studio: “Dalla parola si passa al graffito e dal graffito si passa alla violenza personale”.
Il quadro che emerge dalle analisi delle forze di sicurezza è che molti adolescenti coinvolti non percepiscono la gravità di ciò che fanno. “Questi ragazzi vivono quasi più in forma virtuale che in forma fisica e nel momento in cui commettono uno di questi reati, spesso molto gravi, pensano che spegnendo il computer sia tutto finito” ha sottolineato Pifferi. Ma le conseguenze sono concrete: insulti, minacce e aggressioni restano e incidono sulla vita delle vittime.
Il passaggio all’azione non avviene necessariamente per convinzione ideologica. Più spesso è il risultato di emulazione, della ricerca di visibilità o dell’appartenenza a un gruppo. I casi osservati in Europa mostrano come anche quattordicenni possano sentirsi spinti ad agire dopo aver visto contenuti violenti o antisemiti online. È un fenomeno che non può essere liquidato come marginale: la rete ha abbassato la soglia di ingresso, e questo rende l’odio più accessibile a chiunque.
Memoria fragile, propaganda aggressiva
Un fattore che favorisce il ritorno dell’antisemitismo è la fragilità della memoria storica. Secondo l’ultimo rapporto Eurispes, il 14% degli italiani nega che la Shoah sia mai avvenuta, e percentuali significative la minimizzano. Se il ricordo della persecuzione si indebolisce, i pregiudizi trovano spazio. E la propaganda sfrutta questo vuoto culturale con grande efficacia.
La figura di Liliana Segre lo dimostra con chiarezza. Deportata ad Auschwitz a 13 anni, sopravvissuta e testimone instancabile, Segre è stata più volte oggetto di minacce online, tanto da ricevere la scorta permanente nel 2019. “Provo dolore se penso che una persona come Liliana Segre, che ha avuto la famiglia sterminata, possa essere accusata di quanto sta avvenendo a Gaza” ha dichiarato Andrea Occhipinti, fondatore della Lucky Red e produttore del docufilm Liliana. È il cortocircuito che mescola attualità e memoria, confondendo responsabilità politiche con identità religiose.
La propaganda digitale funziona proprio così: prende un conflitto in corso, lo riduce a slogan, lo piega a un’interpretazione identitaria. L’equazione “ebreo uguale Israele, Israele uguale colpevole” si diffonde in pochi secondi e diventa patrimonio di migliaia di adolescenti. In assenza di conoscenza storica, quel messaggio appare credibile e alimenta una percezione di legittimità dell’odio. È su questo terreno che istituzioni e scuole sono chiamate a intervenire.
Prevenzione e responsabilità condivisa
Per le forze di sicurezza, la prevenzione non può limitarsi all’azione repressiva. “C’è bisogno proprio di quello che voi fate, cioè la costruzione di una cultura sana da proporre ai giovani, soprattutto ai più giovani” ha detto Pifferi agli studenti della Lumsa. Significa lavorare sugli stessi canali utilizzati dagli adolescenti: video brevi, piattaforme digitali, linguaggi immediati. Non basta commemorare, bisogna tradurre la memoria in strumenti che possano davvero raggiungere chi oggi vive dentro feed e chat.
Gli episodi recenti in Italia lo confermano. In provincia di Como un diciassettenne gestiva un gruppo social che inneggiava al fascismo e diffondeva messaggi antisemiti, con richiami al negazionismo. La vicenda mostra quanto sia basso il livello di accesso alla propaganda. Non serve un’organizzazione strutturata: bastano uno smartphone e simboli recuperati dal passato.
“La memoria per essere tale ha bisogno di conoscenza e la conoscenza porta alla consapevolezza” ha ricordato Felice Romano, segretario generale del Sindacato Italiano Unitario dei Lavoratori della Polizia. La sfida è far sì che i giovani possano distinguere tra propaganda e realtà, tra un meme aggressivo e la complessità della storia.