Utero artificiale: fantascienza o realtà? A che punto siamo
- 19 Giugno 2025
- Fertilità
Utero artificiale: futuro riproduttivo o incubo fantascientifico? A chiederselo è stato un recente studio condotto dalla Lancaster University, nel Regno Unito, che ha provato a rispondere a questa domanda analizzando oltre 15.000 commenti lasciati sotto il video virale, risalente al 2022, dal titolo “EctoLife”, che mostrava un impianto futuristico di riproduzione artificiale. Lanciato dal regista e divulgatore scientifico Hashem Al-Ghaili, il video mostrava un presunto impianto di uteri artificiali in grado di far crescere fino a 30.000 bambini all’anno in capsule trasparenti. Lo scopo era quello di animare il dibattito in materia di futuro della riproduzione.
I ricercatori, esperti in linguistica e letteratura di fantascienza, hanno utilizzato strumenti propri della metodologia di ricerca sociale per identificare i temi ricorrenti nei commenti: paura, distopia, riferimenti a opere come Brave New World e Star Wars, e preoccupazioni etiche legate alla selezione genetica e alla disumanizzazione della nascita.
Il risultato? Un sentiment fortemente negativo, alimentato da un immaginario fantascientifico che rende difficile distinguere tra realtà scientifica e narrazione distopica. Ma è davvero solo fantascienza o possibile realtà?

Ectogenesi: è possibile?
Dall’immaginazione alla sperimentazione: un team proveniente da Australia e Giappone sta sviluppando un utero artificiale chiamato terapia dell’ambiente uterino ex vivo (Eve Therapy). Lo studio punta a trattare feti prematuri e malattie neonatali: “Siamo ormai arrivati al punto in cui possiamo prendere un feto [di agnello per il momento, ndr] di 500 grammi e mantenerlo in quello che definirei uno stato fisiologico sostanzialmente normale per due settimane consecutive”, ha raccontato Matt Kemp, professore di ostetricia e ginecologia presso la National University of Singapore, e a capo del progetto Eve Therapy. “È un risultato davvero notevole, ma d’altro canto la crescita di questi feti è anormale”.
Si parla di feti animali perché, fino ad oggi, la tecnologia è stata testata con successo su agnelli e capre, e più recentemente su maialini prematuri, che hanno mostrato uno sviluppo polmonare e neurologico normale. Ma le prime tecnologie di utero artificiale divenute famose in tutto il mondo risalgono al 2017, quando era diventata virale la notizia della pubblicazione dello studio sulla rivista Nature in cui Alan W. Flake, dell’Istituto di ricerca dell’ospedale pediatrico di Philadelphia, e colleghi nella quale annunciavano lo sviluppo di un sistema in grado di riprodurre fedelmente tutte le funzionalità gestazionali di un utero e di mantenere lo sviluppo fisiologico di un agnello in questo dispositivo extrauterino fino a 4 settimane, permettendone la crescita nonostante il parto prematuro.
Una specie di “biobag”, così è stata denominata, e che si basa su un sistema computerizzato che controlla temperatura, composizione chimica e movimento del liquido per garantire uno sviluppo ottimale. Al posto del cordone ombelicale, il feto è connesso tramite cateteri ombelicali a un circuito esterno che funge da placenta artificiale: fornisce ossigeno, rimuove anidride carbonica, e somministra nutrienti in modo controllato. Il tutto è monitorato in tempo reale da sensori e dispositivi medici che permettono di intervenire in caso di anomalie. In pratica, non è solo una sacca, ma un ecosistema artificiale progettato per sostenere la vita fetale.
Si usa il termine ectogenesi per riferirsi allo sviluppo di un embrione fuori dall’utero naturale. Il termine è stato coniato nel 1924 dal genetista J.b.s. Haldane e, sebbene oggi sia ancora in fase sperimentale, rappresenta una frontiera affascinante (e controversa) della biotecnologia. Nel caso umano, l’ectogenesi completa implicherebbe la possibilità di far crescere un bambino dall’embrione fino alla nascita interamente fuori dal corpo femminile. Le potenziali applicazioni includono:
- aiutare persone con infertilità o problemi medici a diventare genitori;
- ridurre i rischi legati alla gravidanza e al parto;
- offrire un’alternativa alla maternità surrogata.
Un futuro tra etica e salute
Il futuro della riproduzione è sempre più vicino a passi importanti. Ma le scelte non saranno prive di problematiche etiche. L’utero artificiale, infatti, dovrebbe consentire la crescita senza complicazioni a neonati prematuri. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni anno nascono prematuramente 15 milioni di bambini, di cui 1 milione muore per complicazioni. La necessità di ridurre la mortalità neonatale ha portato allo sviluppo di tale tecnologia. Attualmente, i modelli operativi della tecnologia includono l’Extra-uterine Environment for Neonatal Development (Extend) del Children’s Hospital di Philadelphia e l’Ex-Vivo uterine Environment (Eve) della Tohoku University e University of Western Australia.
Come viene percepito? Dalla ricerca pubblicata sulla rivista Medical Humanities e condotta dalla Lancaster University è emerso che il concetto di utero artificiale – presentato nel video virale “EctoLife” – genera una reazione fortemente negativa nel pubblico. I timori sono legati alla disumanizzazione della nascita, alla selezione genetica e al controllo sociale. I ricercatori hanno evidenziato come l’immaginario fantascientifico influenzi profondamente la percezione pubblica di tecnologie riproduttive avanzate. Molti utenti hanno espresso preoccupazioni su scenari di “fabbriche di bambini”, eugenetica e perdita del legame umano con la gravidanza.
In sintesi, la ricerca mostra che la comunicazione di tecnologie emergenti come l’ectogenesi deve tenere conto dell’immaginario culturale e delle emozioni collettive, se vuole evitare rigetti sociali e fraintendimenti E ora? La ricerca scientifica avanza, così come i progetti in corso. E le domande etiche si moltiplicano: chi decide quando usare un utero artificiale? Cosa significa essere genitori se la gravidanza avviene in laboratorio? E soprattutto: siamo pronti, culturalmente ed emotivamente, ad accettare una nascita senza corpo? Forse la vera sfida non è tecnologica, ma narrativa: dobbiamo imparare a raccontare il futuro senza paura, ma con consapevolezza.