Fecondazione in vitro, dimagrire aumenta il successo del 21%
- 18 Agosto 2025
- Fertilità
Perdere peso può aumentare le possibilità di concepimento naturale. A rilevarlo è una revisione sistematica della Oxford University, finanziata dal National Institute for Health and Care Research, che ha analizzato 12 studi internazionali e coinvolto 1.921 donne. Oltre all’aumento delle possibilità di concepimento naturale, lo studio ha rilevato che perdere peso aumenta la possibilità di successo di una gravidanza anche nei casi di fecondazione in vitro, fino ad un +21%.
Gravidanza e peso: quale legame?
La ricerca, la più esaustiva del suo genere fino ad oggi, ha analizzato 12 studi clinici randomizzati internazionali, coinvolgendo un totale di quasi 2mila partecipanti. I risultati sono stati pubblicati negli Annals of Internal Medicine. Ciò che è emerso dallo studio è che le donne che hanno partecipato a percorsi per la perdita di peso prima di una fecondazione in vitro erano il 47% più propense a concepire naturalmente rispetto a quelle che ricevevano un supporto minimo o nullo per la perdita di peso. Questi interventi hanno aumentato le probabilità di qualsiasi tipo di gravidanza del 21%.
La dottoressa Moscho Michalopoulou, autrice principale dello studio e ricercatrice del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Assistenza Primaria di Nuffield a Oxford, ha dichiarato: “Attualmente, le donne obese possono affrontare una doppia sfida: tassi più elevati di infertilità e potenziale esclusione dalla fecondazione in vitro finanziata dal Servizio Sanitario Nazionale (inglese, ndr). I nostri risultati danno speranza. Suggeriscono che offrire un supporto strutturato per la perdita di peso potrebbe aumentare le possibilità di concepimento naturale, evitando così la necessità di ricorrere alla fecondazione in vitro. I programmi che aiutano le donne a ottenere perdite di peso hanno il potenziale di aiutare più donne a raggiungere un esito positivo e dovrebbero essere testati in studi clinici più ampi e di alta qualità”.
Con il termine “obesità”, i ricercatori indicano la condizione fisica caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso corporeo, tale da rappresentare un rischio per la salute. Si misura principalmente attraverso l’Indice di massa corporea (Bmi), un valore calcolato dividendo il peso in chili per il quadrato dell’altezza in metri: pari o superiore a 30 kg/m² indica obesità.
Lo studio e i limiti
Lo studio ha rilevato anche dei limiti. Nelle ricerche si parla di “successo della gravidanza”, ma non si analizzano i tassi di mortalità neonatale. La professoressa associata Nerys Astbury, che ha guidato la ricerca, ha osservato: “Le prove sui tassi di nati vivi erano di bassissima certezza perché molti studi non hanno seguito le gravidanze fino al parto e non hanno riportato questo risultato, che è così importante per le pazienti. Sebbene non vi siano prove di un aumento delle perdite di gravidanza, abbiamo bisogno di studi più ampi e di alta qualità per confermare l’effetto sui nati vivi. È stato anche interessante notare che, quando abbiamo limitato l’analisi ai soli programmi di sostituzione della dieta a basso contenuto energetico, che portano a una maggiore perdita di peso, si è verificato un aumento dei nati vivi, ma questo deve essere confermato da studi più ampi”.
Inoltre, il team ha osservato che negli studi condotti sulle donne affette da sindrome dell’ovaio policistico (Pcos), una condizione comune legata sia all’obesità che all’infertilità, sembrava esserci una tendenza verso minori benefici per il concepimento naturale, sebbene sottolineino che si trattava di un’osservazione esplorativa che richiede ulteriori indagini.
I risultati
I risultati sono particolarmente significativi considerando che gli organismi di commissione del Servizio Sanitario Nazionale in Inghilterra, ad esempio, spesso limitano l’accesso alla fecondazione in vitro per le donne che presentano Bmi superiore a 30.
Lo studio suggerisce che fornire un supporto strutturato per la perdita di peso potrebbe non solo aiutare le donne a qualificarsi per il trattamento finanziato a spese dello Stato, ma anche aumentare le loro possibilità di concepire senza assistenza medica. “Non si tratta solo di migliorare i tassi di gravidanza, ma anche di migliorare l’equità nell’accesso ai trattamenti per la fertilità“, ha spiegato la professoressa Astbury. “Sappiamo che le persone provenienti da aree più svantaggiate e quelle di determinate origini etniche hanno maggiori probabilità di convivere con l’obesità. I responsabili politici dovrebbero valutare se integrare un supporto strutturato per la perdita di peso nei servizi per la fertilità possa migliorare i risultati per le pazienti, riducendo potenzialmente i costi complessivi grazie all’aumento del numero di donne che concepiscono naturalmente”.
La normativa italiana in materia di fecondazione in vitro
A differenza di quanto accade in Inghilterra, in Italia non esiste un limite imposto dalla legge al Bmi delle donne che si sottopongono a fecondazione in vitro. La procreazione medicalmente assistita è attualmente disciplinata dalla legge del 19 febbraio 2004, n. 40, che stabilisce le ‘Norme in materia di procreazione medicalmente assistita’ con successive sentenze della Corte costituzionale che l’hanno progressivamente modificata. Il Registro nazionale Pma dal 2006 raccoglie i dati relativi ai trattamenti eseguiti nei centri autorizzati dalle Regioni. Escludendo il 2020, anno in cui la pandemia ha determinato la sospensione o il rinvio di molte procedure, i dati mostrano un forte incremento del ricorso alla Pma: il numero dei trattamenti è passato da 63.585 nel 2005 a 109.755 nel 2022 (+72,6%), come riporta l’Istat.
Nel nostro Paese possono quindi accedere alle tecniche di pma coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi. Saranno le singole cliniche, poi, a identificare il “problema Bmi” nel caso in cui si decida di procedere con il trattamento.