Anche gli uomini hanno un orologio biologico, più rischi dopo i 45 anni
- 30 Giugno 2025
- Fertilità
È ora di rimettere in discussione uno dei dogmi più radicati nella medicina della fertilità: l’idea che gli uomini possano diventare padri in qualunque fase della vita, senza alcun impatto biologico rilevante sul successo riproduttivo. Uno studio internazionale presentato al 41° Congresso della Società europea di riproduzione umana ed embriologia (Eshre), in corso a Parigi, apre un nuovo fronte: l’età avanzata del padre ha un’influenza significativa sugli esiti della fecondazione in vitro, anche quando la madre biologica è esclusa dall’equazione tramite l’uso di ovociti donati da donne giovani e sane.
Il lavoro ha coinvolto 1.712 cicli di ovodonazione in sei centri tra Italia e Spagna. Si tratta di uno studio retrospettivo rigoroso, costruito per isolare con precisione l’effetto dell’età maschile. Tutte le donne riceventi avevano un’età media di 43,3 anni, e tutte le donatrici di ovociti avevano un’età media di 26,1 anni. Solo un singolo embrione è stato trasferito per ogni ciclo, minimizzando le variabili. Gli uomini coinvolti sono stati divisi in due gruppi: under 45 (1.066 cicli) e over 45 (646 cicli).
Dai risultati emerge che tra gli uomini con più di 45 anni, i tassi di aborto spontaneo sono saliti al 23,8% rispetto al 16,3% del gruppo più giovane. Analogamente, il tasso di nati vivi è sceso al 35,1%, rispetto al 41% del gruppo under 45. La qualità dell’embrione, la fecondazione e lo sviluppo iniziale non mostrano differenze marcate, ma è sul piano clinico finale che l’età maschile fa sentire il suo peso.
“Tradizionalmente l’età materna è stata al centro dell’attenzione in medicina riproduttiva, ma i risultati dimostrano che anche l’età del partner maschile gioca un ruolo cruciale e indipendente” da quella della madre biologica afferma Maria Cristina Guglielmo, embriologa e direttrice di laboratorio alla clinica Eugin di Taranto.
Cosa accade agli spermatozoi con l’avanzare dell’età
Perché l’età dell’uomo incide così tanto sull’esito della procreazione medicalmente assistita? Le spiegazioni sono molecolari, genetiche ed epigenetiche. Con l’invecchiamento, le cellule staminali spermatogoniali – che si dividono costantemente per produrre spermatozoi – accumulano errori. Ogni divisione cellulare rappresenta un’opportunità per mutazioni, e con il tempo il carico di mutazioni de novo nei gameti maschili aumenta sensibilmente.
In particolare, spiega Guglielmo, l’invecchiamento paterno è correlato a un incremento delle aneuploidie spermatiche – cioè spermatozoi con un numero errato di cromosomi – e a un maggiore tasso di frammentazione del Dna spermatico. Questo significa che anche se lo spermatozoo riesce a fecondare l’ovulo, il suo patrimonio genetico è più fragile e meno integro.
Inoltre, si osservano anche alterazioni epigenetiche, in particolare nella metilazione del Dna, che possono influenzare l’espressione genica dell’embrione, condizionando negativamente il suo sviluppo e aumentandone la vulnerabilità a interruzioni di gravidanza.
“Si tratta di danni che non vengono rilevati nei parametri standard di laboratorio – prosegue Guglielmo – perché la motilità, il numero e la morfologia degli spermatozoi possono apparire normali. Ma l’integrità interna è compromessa, e questo si riflette nel tasso di successo clinico”.
È un cambiamento di paradigma che impone una revisione anche nella consulenza per le coppie. Se l’età femminile è da sempre considerata un fattore chiave, ora anche quella maschile deve diventare un parametro esplicitamente considerato nella consulenza pre-Fiv, specialmente nei cicli con ovodonazione, dove il contributo genetico femminile è altamente controllato.
Ecco perché gli specialisti insistono sempre più sulla necessità di non ignorare il fattore tempo. “Il tempo è nemico della fertilità maschile: con l’avanzare dell’età aumenta infatti anche la quantità di danni al Dna spermatico – dichiara Alessandro Palmieri, presidente della Società Italiana di Andrologia (SIA) –. Già dai 34 anni in su, i danni accumulati possono impedire il concepimento o aumentare le probabilità di trasmettere mutazioni genetiche, legate a patologie dell’infanzia o dell’età adulta”.
Il congelamento del seme
Di fronte a queste evidenze, la sola prevenzione non basta più. Sempre più specialisti suggeriscono di preservare attivamente la fertilità maschile quando si è giovani e in buona salute. Uno degli strumenti più concreti in questa direzione è la crioconservazione del seme.
“Congelare il seme in giovane età garantisce la disponibilità di campioni con maggiore integrità genetica e motilità – sottolinea Palmieri –. È un’opzione realistica e accessibile per proteggere il proprio futuro riproduttivo”. Il processo, spiegano gli andrologi della Sia, è semplice e sicuro: i campioni vengono raccolti, analizzati e poi conservati in azoto liquido a temperature bassissime, mantenendo la loro vitalità per decenni. In futuro, potranno essere utilizzati con tecniche come la fecondazione in vitro o l’iniezione intracitoplasmatica degli spermatozoi (Icsi).
In un contesto in cui, secondo l’Istat, gli uomini italiani sono i papà “più anziani” d’Europa – con il primo figlio dopo i 35 anni – il congelamento del seme diventa una strategia concreta per contrastare la denatalità e preservare la paternità.
Da qui l’appello della Sia al Sistema Sanitario Nazionale per favorire l’accesso alla crioconservazione, sul modello di quanto fatto dalla Regione Puglia, che ha introdotto un bonus di 3.000 euro per la crioconservazione degli ovociti. “È tempo di considerare seriamente la creazione di una banca nazionale dei gameti, pubblica e accessibile – conclude Palmieri –. È un investimento sul futuro del Paese, non solo su quello individuale”.
Dalla diagnosi alla consulenza
Le implicazioni dello studio e delle evidenze più recenti vanno ben oltre la comprensione dei meccanismi biologici. Cambiano le strategie cliniche, il linguaggio nella consulenza e la gestione dei percorsi riproduttivi. “Serve un approccio più bilanciato – afferma Guglielmo –. Le cliniche dovrebbero informare chiaramente i pazienti maschi sull’impatto dell’età non solo sulla possibilità di concepire, ma anche sulla probabilità di portare a termine la gravidanza e sulla salute della futura prole”.
In quest’ottica, la consulenza pre-Fiv dovrebbe includere una valutazione esplicita dell’età maschile, insieme a una discussione proattiva su misure di preservazione della fertilità. La crioconservazione del seme in età giovane, ad esempio, dovrebbe diventare parte integrante della pianificazione riproduttiva, non solo in presenza di patologie ma anche per chi, per motivi personali o professionali, decide di posticipare la paternità.
Questo significa anche ripensare i protocolli e aggiornare le linee guida internazionali, affinché riflettano i cambiamenti sociali e scientifici. È tempo di superare l’immaginario culturale secondo cui l’età del padre è irrilevante: oggi sappiamo che è un parametro cruciale, clinicamente e socialmente. La medicina della fertilità maschile ha bisogno di una visione nuova, che integri prevenzione, informazione e accesso equo agli strumenti di tutela.