“Un bicchiere non fa male”? In gravidanza può rovinare una vita
- 9 Settembre 2025
- Fertilità
Un bicchiere di vino, uno spritz durante l’aperitivo o una ‘birretta’ per rilassarsi. Per molte persone questi gesti fanno parte della quotidianità, quasi rituali. Ma quando si parla di gravidanza, l’Istituto superiore di sanità (Iss) ribadisce senza sfumature: non esiste un livello sicuro di consumo di alcol. Nemmeno uno. La Giornata mondiale della sindrome feto-alcolica e dei disturbi alcol correlati, che ricorre oggi – 9 settembre, non a caso il nono giorno del nono mese – torna a mettere il tema sotto i riflettori, con un messaggio diretto e netto: “Un solo bicchiere potrebbe cambiare una vita intera, se aspetti un bambino non rischiare”.
Dietro questa campagna ci sono dati che non lasciano spazio a compromessi. Ogni anno nascono nel mondo circa 120mila bambini con disturbi dello spettro feto-alcolico (Fasd), di cui circa 2.500 in Italia. Una problematica ancora troppo poco conosciuta, spesso minimizzata o confusa con altri ritardi nello sviluppo, e che invece ha una caratteristica precisa: è completamente evitabile. L’unico modo per prevenire la Fasd è l’astensione totale dall’alcol durante la gravidanza e già nella fase di pianificazione di una maternità.
Fasd, una sindrome evitabile ma spesso invisibile
La Fasd – acronimo di Fetal Alcohol Spectrum Disorders – non è una singola malattia ma un insieme di condizioni che derivano dall’esposizione prenatale all’alcol. La forma più grave è la sindrome feto-alcolica (Fas), caratterizzata da anomalie facciali tipiche, microcefalia, ritardo nella crescita e compromissioni neurologiche permanenti. Ma nella maggior parte dei casi i disturbi si presentano in forme meno evidenti e quindi più difficili da riconoscere: difficoltà di apprendimento, deficit di attenzione, problemi comportamentali.
Proprio questa “invisibilità” rende la diagnosi complessa e tardiva. Non sempre i pediatri o gli insegnanti collegano un disturbo cognitivo o comportamentale all’esposizione prenatale all’alcol. E intanto la vita del bambino e della sua famiglia viene segnata da difficoltà spesso croniche e irreversibili.
L’Iss ricorda che i danni non dipendono dalla frequenza o dalla quantità assunta in singoli episodi: “Assumere alcol in gravidanza, anche in piccole quantità, rappresenta un grave rischio per la salute del nascituro”, sottolinea Elsa Del Bo, segretario nazionale della Federazione nazionale degli Ordini della professione ostetrica (Fnopo). Non esiste una soglia di sicurezza, e il concetto stesso di “consumo moderato” in gravidanza è privo di fondamento scientifico.
Nonostante questo, la convinzione che “un bicchiere non fa male” rimane diffusa. Ecco perché la Giornata del 9 settembre punta prima di tutto alla consapevolezza: evitare che la sindrome resti un tema confinato alle pubblicazioni scientifiche e non diventi invece materia di conoscenza comune, anche nei giovani adulti che si affacciano all’età fertile.
Informazione e formazione
La prevenzione passa dalla comunicazione diretta alle donne, ma anche dalla preparazione di chi le accompagna nel percorso nascita. Per questo l’Iss, con il Centro nazionale Dipendenze e Doping e il sostegno del ministero della Salute, ha avviato un programma formativo nazionale dedicato ai professionisti socio-sanitari.
Il progetto, intitolato “Salute materno-infantile: formazione degli operatori socio-sanitari ed empowerment delle giovani donne (18-24 anni) sui rischi connessi al consumo di alcol in gravidanza”, ha visto un’adesione significativa: oltre 23.600 iscrizioni ai corsi e 15.590 completamenti, circa il 66% del totale. Il modulo che ha registrato la maggiore partecipazione è stato quello sugli elementi base della diagnosi, con quasi 10mila iscritti.
Questi numeri raccontano la necessità di colmare un vuoto di conoscenze. Troppo spesso, infatti, i messaggi che arrivano alle gestanti sono contraddittori o, peggio, inesistenti. C’è chi riceve rassicurazioni infondate, chi non viene informata in modo esplicito e chi, ancora, trova normalizzato il consumo di alcol da parte di figure di riferimento.
Fnopo insiste su questo punto: “Le ostetriche hanno un ruolo fondamentale nell’educazione sanitaria e nell’accompagnamento delle gestanti. Siamo al fianco delle donne per spiegare i rischi e sostenerle in scelte di salute consapevoli”. In un contesto come quello italiano, dove l’alcol è parte integrante della socialità, il compito degli operatori sanitari diventa ancora più delicato. L’obiettivo non è demonizzare una cultura, ma chiarire che in gravidanza l’unica scelta priva di rischi è l’astensione totale.
Il mito del “bere mediterraneo”
Se l’alcol è radicato nelle abitudini sociali e alimentari italiane, l’idea che piccole quantità siano innocue affonda le sue radici anche nel cosiddetto “mito del bere mediterraneo”. Il bicchiere di vino a tavola, il brindisi nelle occasioni familiari, il consumo percepito come parte della convivialità. In questo quadro, chiedere l’astensione totale alle donne in gravidanza non significa soltanto trasmettere un’informazione medica, ma entrare in un terreno che tocca credenze, tradizioni e pratiche quotidiane.
“Bere anche saltuariamente può avere conseguenze irreversibili sullo sviluppo del feto, determinando disabilità cognitive, problemi comportamentali e difficoltà di apprendimento che accompagneranno il bambino per tutta la vita”, ricorda Del Bo. Ma questa affermazione si scontra con un contesto in cui spesso i rischi vengono minimizzati.
L’ostacolo è quindi anche culturale. Secondo studi condotti in diversi Paesi europei, molte donne riportano di aver ricevuto consigli discordanti: alcuni medici parlano di astensione totale, altri suggeriscono che “qualche bicchiere” non rappresenti un pericolo. Questo cortocircuito comunicativo mina la fiducia e alimenta false certezze.
Per cambiare paradigma serve un lavoro a più livelli: campagne pubbliche, formazione sanitaria, coinvolgimento delle scuole e dei media. Perché l’idea che “non faccia male” non nasce nel vuoto, ma si nutre della normalizzazione diffusa del consumo di alcol. Spezzare questa catena culturale è forse la sfida più complessa, ma anche la più necessaria.