Attività extrascolastiche, quando il troppo stroppia: parola alla pedagogista
- 27 Agosto 2025
- Famiglia
Con settembre, nelle famiglie italiane, scatta la stagione delle iscrizioni a corsi, laboratori e sport extrascolastici. Non è solo organizzazione: è una sorta di rito collettivo che mette i genitori di fronte a una sfida implicita. Offrire “il meglio” ai propri figli significa iscriverli a una lista di attività che diventa, nei fatti, un biglietto da visita sociale. Lo si percepisce nelle conversazioni quotidiane: “abbiamo scelto cinese”, “lo abbiamo iscritto a coding”, “inizia violino”. Frasi che raccontano molto delle aspettative dei genitori e poco dei bisogni dei bambini.
“Un compito cruciale per i genitori è distinguere tra le proprie aspettative e i reali bisogni dei figli”, ricorda la pedagogista Giovanna Giacomini. “La società odierna ci propone un’immagine di genitore ideale che offre infinite opportunità ai figli, portandoli a eccellere in ogni campo. Questo contesto rischia di farci proiettare sui bambini desideri e ansie che non sono i loro”. È una dinamica che si autoalimenta, spinta da social e chat di classe, dove le scelte extrascolastiche diventano un terreno di confronto e competizione.
La conseguenza è che molti bambini finiscono schiacciati da un’agenda costruita più sull’ansia di “non restare indietro” che sull’ascolto reale delle loro inclinazioni. Giacomini mette in guardia da un errore comune: “Non aver paura se tuo figlio non eccelle o non ama determinate attività; non significa aver fallito come genitore. È essenziale distinguere la felicità dalla performance”. Perché l’infanzia non è una maratona verso l’eccellenza, ma un tempo irripetibile che ha bisogno di gioco, libertà e autenticità.
I criteri che contano davvero nella scelta delle attività
Se liberarsi dalle aspettative esterne è il primo passo, il secondo, ben più difficile, è imparare a scegliere davvero in base al bambino. Qui la tentazione di lasciarsi guidare da mode e aspettative è fortissima, ma spesso fuorviante. Non sempre ciò che funziona per l’amico del cuore o per il figlio dei colleghi è la soluzione giusta. Ogni bambino ha inclinazioni, tempi e bisogni propri, che non possono essere incasellati in un modello unico. “Il criterio d’oro – spiega Giovanna Giacomini – è sempre partire dal bambino e porsi le giuste domande. La qualità dell’esperienza, l’allineamento con la sua personalità e la serenità con cui la vive sono ciò che conta davvero”. Questo significa imparare a leggere i segnali, spesso più chiari di quanto si creda: un’attività che assorbe il bambino senza fatica racconta molto più di cento consigli esterni; al contrario, un impegno affrontato con resistenza e nervosismo difficilmente porterà risultati, se non addirittura il rifiuto totale.
C’è anche una questione di tempi: a quattro anni la priorità resta il gioco e la psicomotricità, non un corso strutturato di sport; a sei o sette si possono introdurre esperienze più mirate, ma sempre calibrate sulla curiosità del momento. Forzare scelte premature, solo perché “fa bene” o perché “è utile per il futuro”, rischia di lasciare un segno negativo che i bambini si portano dietro a lungo.
Giacomini sottolinea un altro punto spesso ignorato: l’ambiente. “Un contesto svalutante o competitivo annulla qualsiasi beneficio. È fondamentale informarsi sul gruppo e sugli educatori: devono essere inclusivi, stimolanti e coerenti con i valori della famiglia”. Infine, c’è il lato pratico: un corso eccellente che si trasforma in una corsa contro il tempo per tutta la famiglia perde molto del suo valore. Non è quindi solo la disciplina a contare, ma il modo in cui si integra nella vita quotidiana. Scegliere bene, in questo senso, significa avere il coraggio di tagliare il superfluo e costruire esperienze che rispondano a quel bambino, in quel preciso momento della sua crescita.
Strategie per evitare l’iperprogrammazione
Il passo successivo riguarda la gestione concreta del tempo. Le famiglie spesso si trovano a vivere le attività extrascolastiche come un incastro impossibile: corse in macchina, orari serrati, bambini che sembrano manager in miniatura. Qui il rischio ha un nome preciso: iperprogrammazione. E i danni sono reali: stanchezza cronica, calo di concentrazione, perdita di entusiasmo, stress familiare. “Ogni età ha il suo tempo – avverte Giacomini –. I quattro anni di un figlio non torneranno più. È essenziale ridefinire i nostri valori e ricordarci che i bambini hanno il diritto di vivere la propria infanzia”. Per evitare la trappola, alcune strategie sono semplici ma decisive:
- Routine chiara ma con spazi liberi: stabilire giorni per attività e giorni “vuoti”, dove non c’è nulla di prestabilito. La “regola del due” – massimo due attività oltre la scuola – è una linea guida utile.
- Flessibilità: l’agenda non è scolpita nella pietra. Se il bambino mostra stanchezza, si rallenta. Se perde interesse, si cambia. È l’ascolto a guidare, non il calendario.
- Monitoraggio costante: osservare segnali di affaticamento come irritabilità, difficoltà di concentrazione, cambiamenti nel sonno. Non vanno ignorati: sono campanelli d’allarme che richiedono interventi immediati.
Sono accorgimenti pratici che ribaltano una logica diffusa: non è la quantità di esperienze a fare la differenza, ma la qualità con cui vengono vissute. Una regola semplice, difficile da applicare solo perché va controcorrente rispetto a una società che misura il valore su quante cose si riescono a fare.
Preparare al futuro senza dimenticare il passato
La retorica delle attività extrascolastiche guarda quasi sempre avanti: lingue, tecnologia, Stem. Ma la domanda vera è: cosa manca oggi ai bambini? “Dovremmo recuperare abilità scomparse che, pur sembrando d’altri tempi, sono fondamentali per la formazione della persona”, spiega Giacomini. Costruire con le mani, cucinare, coltivare un orto, orientarsi nella natura, sporcarsi di fango. Sono esperienze che sviluppano autonomia, concentrazione, pazienza. Eppure oggi sono viste come straordinarie, quando fino a pochi anni fa erano parte naturale dell’infanzia. Il modello “Scuole Felici”, creato dalla pedagogista, propone proprio questo: bambini che maneggiano strumenti veri, che sperimentano la “pedagogia del rischio”, che imparano dall’esperienza diretta più che dalla simulazione.
È un ribaltamento di prospettiva: non solo Hi Tech, ma anche Hi Touch. La tecnologia avrà sempre più peso, ma senza senso pratico, autonomia e capacità di relazione, rischia di produrre individui incompleti. Preparare al futuro significa allora restituire ai bambini ciò che stiamo dimenticando: la possibilità di vivere esperienze concrete, di sbagliare, di crescere non solo come studenti brillanti, ma come persone capaci di adattarsi e di agire nel mondo reale.