Se tuo figlio fosse Jamie Miller? “Adolescence” su Netflix e l’incubo dei genitori
Netflix ha fatto centro di nuovo. “Adolescence“, la sua nuova miniserie, è un racconto viscerale e autentico di una generazione che non si riconosce più nei vecchi schemi, ma fatica a trovarne di nuovi. In un’epoca in cui l’età dell’innocenza sembra evaporare sempre più in fretta e l’accesso a infinite informazioni non si traduce in una maggiore consapevolezza, la serie diventa una lente di ingrandimento sulle sfide, le paure e i sogni di chi sta attraversando il confine più incerto della vita: l’adolescenza.
La miniserie britannica di quattro episodi, che ha debuttato su Netflix giovedì scorso, non solo ha conquistato il primo posto nella classifica delle serie più viste con 24,3 milioni di visualizzazioni nei primi quattro giorni, ma ha anche infiammato il dibattito culturale.
Il protagonista, Jamie Miller, ha il volto di Owen Cooper, un esordiente assoluto che offre una performance glaciale e disturbante. A dargli manforte ci sono Stephen Graham e Christine Tremarco, nei panni dei suoi genitori, due figure che si muovono tra sgomento e senso di colpa. La regia asciutta e teatrale di Jack Thorne lascia poco spazio all’azione esplosiva e punta invece su tensioni sottili, su dialoghi carichi di significato e su lunghi silenzi che raccontano più di mille parole.
Una delle scene più emblematiche dell’intera serie è un episodio interamente dedicato a un’intervista tra Jamie e una psicologa infantile. Cinquantadue minuti di scavo psicologico, una discesa nella mente di un ragazzino accusato di un crimine orribile. Il risultato? Uno degli episodi più intensi e disturbanti che si siano visti in tv negli ultimi anni.
Il terrore di ogni genitore: il figlio che diventa un assassino
Se c’è un incubo peggiore per un genitore della perdita di un figlio, è scoprire che quel figlio ha tolto la vita a qualcun altro. “Adolescence” cavalca con maestria questa paura, mettendo in scena il dramma di una famiglia qualunque che si trova improvvisamente sotto i riflettori per un crimine inconcepibile. Eddie e Manda Miller, i genitori di Jamie, non sono mostri, non sono negligenti, non sono violenti. Sono una coppia amorevole, solida, che si è impegnata a crescere i figli con principi sani. Eppure, qualcosa è andato storto. E quel “qualcosa” non è accaduto sotto il loro tetto, ma dietro lo schermo di uno smartphone.
La serie mette in luce una verità scomoda: il pericolo non si annida più nei vicoli bui o nei parchi abbandonati, ma negli algoritmi dei social media, nelle chat di gruppo, nei video di influencer che propagano odio con un linguaggio apparentemente innocuo. Jamie Miller è il prodotto di un sistema che radicalizza i ragazzi senza che nessuno se ne accorga fino a quando non è troppo tardi.
Un dettaglio agghiacciante? I poliziotti che indagano sull’omicidio di Katie Leonard, la vittima, non riescono a interpretare correttamente le interazioni tra lei e Jamie sui social. Un commento con un’emoji di dinamite non è un gioco, ma un atto di bullismo, un codice interno che solo gli adolescenti comprendono. Un dettaglio che cambia tutto.
Il lato oscuro dell’adolescenza nell’era digitale
“Adolescence” non è solo un thriller psicologico, ma anche un ritratto spietato di cosa significhi crescere oggi. L’adolescenza è da sempre un periodo complesso, ma negli ultimi anni si è trasformata in un vero campo minato. Cyberbullismo, isolamento sociale, radicalizzazione online: sono fenomeni reali, tangibili, che stanno plasmando una generazione di ragazzi spesso invisibili agli occhi degli adulti.
La serie affronta il tema della cultura incel (involuntary celibate: persone che si identificano come incapaci di trovare un partner romantico o sessuale nonostante il desiderio di averne uno – ndr) e della misoginia diffusa in alcune nicchie di internet, mostrandoci come un ragazzino apparentemente normale possa essere risucchiato in una spirale di odio e risentimento. Jamie Miller non è un mostro nato, è un prodotto dell’ambiente in cui è cresciuto, delle influenze che ha assorbito. Un dettaglio che rende la sua storia ancora più inquietante.
Uno degli aspetti più devastanti della serie è proprio il suo realismo. Non ci sono colpi di scena improbabili, non ci sono spiegazioni rassicuranti. C’è solo la crudele realtà: un ragazzino ha ucciso una compagna di scuola e nessuno, nemmeno i suoi genitori, riesce a capire come sia potuto accadere.
Con la sua struttura narrativa innovativa, la sua regia essenziale e la sua capacità di scavare nel tessuto sociale senza cadere in facili moralismi, “Adolescence” segna un punto di svolta nelle produzioni crime di Netflix. La serie si inserisce nel filone dei thriller psicologici che non si limitano a raccontare un crimine, ma lo usano come lente per analizzare la società. “Adolescence”, insomma, ci costringe a interrogarci su cosa significhi davvero crescere in un mondo in cui il confine tra reale e virtuale è sempre più labile.