Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata, la cicatrice demografica che ridefinisce l’Italia
- 10/02/2025
- Popolazione
Il 10 febbraio, nel Giorno del Ricordo, l’Italia commemora una delle pagine più dolorose della sua storia contemporanea: la tragedia delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata. Ogni anno, il dibattito si riaccende, non solo in occasione delle cerimonie ufficiali ma anche a seguito di episodi che riaffiorano le tensioni legate a questa memoria storica. Recentemente, un atto vandalico alla Foiba di Basovizza, simbolo della memoria delle vittime, ha suscitato reazioni indignate e riaperto la discussione sull’importanza di preservare la verità storica. Le scritte in lingua slava, come “Trieste è nostra” e “Trieste è un pozzo”, testimoniano quanto il ricordo della tragedia continui a essere un campo minato, un terreno di scontro tra rivendicazioni politiche e una necessità di verità condivisa.
L’episodio non è isolato. Ogni anno, a ridosso della Giornata del Ricordo, si registrano atti di vandalismo o tentativi di revisionismo legati alla memoria delle foibe. Non è solo un attacco ai luoghi simbolo, ma anche una ferita inferta alla dignità delle famiglie che, da generazioni, portano con sé il peso di una storia mai completamente riconosciuta. Come ha ricordato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, questo gesto rappresenta “un atto di gravità inaudita” che colpisce non solo le vittime, ma tutta la nazione. La premier parla di “Una pagina dolorosa della nostra storia per troppo tempo dimenticata. Ricordare è un dovere di verità e giustizia, per onorare chi ha sofferto e trasmettere questa memoria alle nuove generazioni. L’Italia non dimentica”. Tuttavia, la vera sfida è comprendere come gli eventi delle foibe abbiano influito sul territorio, sulle persone e sulle comunità italiane, e come la memoria collettiva di questi fatti sia in continua evoluzione.
Giorno del Ricordo
Nel corso degli ultimi decenni, la necessità di preservare la memoria storica legata alle foibe e all’esodo giuliano-dalmata è emersa con forza crescente, diventando un tema centrale nel dibattito politico e culturale italiano. La commemorazione del 10 febbraio, noto come Giorno del Ricordo, è stata istituzionalizzata con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, un atto che ha rappresentato il riconoscimento ufficiale di un dolore collettivo e l’impegno a non dimenticare una delle pagine più buie della nostra storia. Questa ricorrenza ha offerto l’occasione di mettere in luce non solo le vittime delle violenze, ma anche le conseguenze demografiche e sociali che tali eventi hanno lasciato sulle comunità italiane.
Il processo di sensibilizzazione ha preso piede soprattutto grazie all’impegno congiunto di storici, associazioni di esuli e istituzioni educative, che hanno cercato di includere nella narrazione ufficiale quella realtà spesso marginalizzata e minimizzata. Le scuole, in particolare, hanno assunto un ruolo cruciale nella trasmissione di una memoria critica e condivisa, promuovendo percorsi didattici che spaziano dalla ricostruzione storica degli eventi al loro impatto demografico e sociale. Tuttavia, nonostante gli sforzi, permangono ancora oggi resistenze e revisionismi, che si manifestano attraverso atti di vandalismo e negazionismo, come nel caso della recente offesa alla Foiba di Basovizza.
Questo continuo scontro tra la necessità di ricordare e la volontà di negare fa parte di una dinamica più ampia, in cui la memoria storica diventa uno strumento politico. La politica, infatti, ha spesso strumentalizzato il discorso sul passato per consolidare posizioni ideologiche e rivendicare un’identità nazionale che si basa, in parte, sul superamento di quella tragedia. Tali dinamiche hanno il doppio effetto di rinvigorire il dibattito pubblico e, al contempo, di riaprire vecchie ferite, creando un clima in cui il ricordo non è solo un atto di memoria, ma anche un terreno di scontro ideologico. Le parole dei rappresentanti istituzionali, che condannano con fermezza ogni atto di vandalismo, sono un chiaro segnale dell’importanza attribuita alla tutela della verità storica, anche se, in certi momenti, essa si scontra con interessi politici e retoriche nazionalistiche.
Sul piano sociale, il dialogo intergenerazionale si rivela fondamentale per la trasmissione di una memoria che sia al contempo critica e rispettosa. Le iniziative culturali, che spaziano da mostre fotografiche a documentari, da incontri pubblici a forum di discussione, hanno contribuito a creare uno spazio in cui il dolore del passato può essere elaborato e compreso in modo più profondo. È attraverso questi momenti di confronto che si costruisce una memoria collettiva, capace di andare oltre le divisioni ideologiche e di unire cittadini di diversa estrazione in un comune sforzo di riconciliazione.
Il contesto storico e demografico delle foibe
Le foibe rappresentano una delle ferite più aperte e controverse della storia italiana del Novecento, una ferita che ha segnato non solo il territorio ma anche l’identità di intere comunità. Fin dai primi anni della Seconda Guerra Mondiale, il confine orientale italiano – con territori che oggi corrispondono all’Istria, alla Dalmazia e ad alcune aree del Quarnaro – era teatro di tensioni etniche, culturali e politiche. L’area, da sempre crocevia di popolazioni, aveva visto, sin dal periodo asburgico, una convivenza di italianità, sloveno, croata e altre minoranze, ognuna con la propria storia e le proprie radici. Tuttavia, il processo di italianizzazione forzata, accelerato dal regime fascista, aveva alimentato rancori e sospetti reciproci, creando un terreno fertile per future violenze.
Nel periodo che va dal 1943 al 1945, con l’avvicinarsi della fine del conflitto mondiale, il quadro politico ed etnico si fece sempre più instabile. Le forze partigiane jugoslave, guidate da Tito, intrapresero una campagna di violenze che aveva come obiettivo, secondo la loro visione ideologica, l’eliminazione di chi rappresentava il “vecchio ordine” e la rivitalizzazione di una nuova identità nazionale. Le foibe, profonde cavità carsiche che punteggiano il paesaggio della regione, divennero il simbolo di questo scontro brutale: non solo vi furono uccisioni sommarie, ma intere famiglie italiane, che avevano per secoli contribuito alla vita economica e culturale della zona, furono cancellate dalla memoria ufficiale.
L’azione di eliminazione non fu indiscriminata, ma prese di mira anche intellettuali, insegnanti, religiosi e figure di spicco della società civile, provocando una profonda crisi demografica. Le fonti storiche, pur divergendo sui numeri esatti, suggeriscono che le vittime possano essere state decine di migliaia, con stime che oscillano tra le 10mila e le 15mila persone. Questa pulizia etnica, voluta non solo per motivi politici ma anche per ridefinire la composizione demografica dei territori contesi, provocò un mutamento irreversibile del tessuto sociale locale.
La cancellazione forzata dell’identità italiana in queste terre fu il preludio a una trasformazione demografica di vasta portata: le città e i paesi, un tempo fiorenti centri di cultura e commercio, videro svanire in pochi anni la presenza di una popolazione che si riconosceva in una tradizione millenaria. La sostituzione con insediamenti e popolazioni slave, promossa dalle autorità jugoslave, non solo modificò i confini culturali, ma segnò un’epoca in cui la storia fu riscritta attraverso la lente della politica e della propaganda. Il peso di questo cambiamento si sente ancora oggi, nelle tracce lasciate nelle architetture, nella memoria collettiva e nel modo in cui il territorio viene percepito e vissuto. La dialettica tra memoria e identità, infatti, si è trasformata in un vero e proprio campo di battaglia culturale, dove ogni gesto – per quanto simbolico – viene interpretato come un atto politico e come una riaffermazione di quella identità che per troppo tempo è stata messa in discussione.
Il quadro demografico delle regioni colpite da queste violenze non può essere compreso senza considerare il processo storico che le ha segnate. L’occupazione, la guerra e, infine, la drastica modifica dei confini, hanno condizionato non solo il presente ma hanno lasciato un’eredità di divisione e di dolore, dove il ricordo delle foibe si intreccia indissolubilmente con quello di una comunità che ha lottato per mantenere la propria identità di fronte a forze ben organizzate e a politiche di sterminio culturale.
L’esodo giuliano-dalmata: dinamiche sociali e conseguenze demografiche
Accanto alla tragedia delle foibe, un’altra ferita aperta nella storia italiana è rappresentata dall’esodo giuliano-dalmata, una delle migrazioni forzate più drammatiche del dopoguerra. Tra il 1943 e il 1956, circa 250mila – e secondo alcune stime fino a 300mila – italiani si videro costretti a lasciare le proprie terre nell’Istria, a Fiume e nella Dalmazia, abbandonando case, tradizioni e radici secolari per cercare rifugio in un’Italia che, a volte, li accoglieva con diffidenza. Questo spostamento massiccio di popolazioni non fu solo una fuga dalla violenza, ma un vero e proprio disastro demografico, capace di rimodellare l’identità territoriale e culturale di intere regioni.
Le dinamiche alla base di questo esodo sono da ricercare in un contesto storico contraddittorio, segnato da un dopoguerra in cui il peso degli eventi bellici si traduceva in una profonda crisi di fiducia e identità. Le autorità jugoslave, nel tentativo di consolidare un nuovo ordine politico e sociale, promossero politiche di ripopolamento che favorirono l’insediamento di popolazioni slave nelle aree abbandonate dagli italiani. Tale operazione portò a una trasformazione radicale della composizione demografica: città storicamente italiane come Pola, Fiume e Zara persero la loro identità culturale, sostituita da un nuovo ordine etnico che avrebbe plasmato il volto della regione per decenni.
Sul versante italiano, l’arrivo di centinaia di migliaia di esuli rappresentò una sfida imponente per il tessuto sociale ed economico del paese. Le città d’arte e di lavoro, come Trieste, Venezia, Milano e Roma, furono teatro di un’integrazione forzata, in cui i nuovi arrivati spesso si trovarono a fronteggiare pregiudizi, difficoltà burocratiche e condizioni di vita precarie, convogliate in campi profughi e strutture temporanee. L’accoglienza, ben lontana dall’essere calorosa, si fece a tratti fredda e disumana, alimentando un senso di abbandono e di smarrimento che si è perpetuato per intere generazioni.
Le conseguenze demografiche dell’esodo si sono manifestate in maniera profonda sia sul piano quantitativo che qualitativo. La dispersione della comunità italiana, frutto di una migrazione forzata e dolorosa, ha inciso pesantemente sulla struttura familiare e sociale: interi nuclei si sono trovati a dover ricostruire la propria vita in contesti nuovi, lontani dalla familiarità delle proprie radici. Il senso di perdita, il trauma della separazione e l’angoscia del non appartenere più a quel luogo che per secoli era stato casa, hanno lasciato cicatrici indelebili. Queste cicatrici non si limitano a una dimensione individuale, ma si estendono a quella collettiva, contribuendo alla formazione di una memoria condivisa che, ancora oggi, alimenta dibattiti e controversie sul riconoscimento di un’identità culturale negata.
Dal punto di vista economico e sociale, l’arrivo massiccio degli esuli ha avuto effetti di lunga durata. Le difficoltà di integrazione hanno portato molti a intraprendere percorsi di emigrazione ulteriori, cercando altrove una possibilità di rinascita, lontani dal peso della storia. Al contempo, le comunità italiane all’interno del territorio nazionale hanno dovuto fare i conti con una realtà frammentata, in cui il senso di appartenenza veniva continuamente messo in discussione da rivalità interne e dalla percezione di un passato che ancora non si era chiuso. Le tensioni generate da questa situazione hanno contribuito a plasmare il dibattito politico e culturale del dopoguerra, lasciando un’eredità che si riflette, in parte, anche nella società italiana contemporanea.
Testimonianze dal passato
Tra le voci che emergono dalla complessa trama della memoria, quella del figlio di un esule istriano risuona con particolare forza, offrendo uno spaccato intimo e toccante di una realtà che spesso viene raccontata solo attraverso dati e statistiche. Le testimonianze legate al dramma delle Foibe e dell’esodo istriano sono spesso attraversate da una commistione di dolore, perdita e resilienza. Come racconta Riccardo Rossi, il ricordo di quel periodo non è solo una riflessione sulla sofferenza, ma anche una celebrazione di atti eroici e di una resistenza che ha permesso la salvezza di molte vite. La sua testimonianza personale è inestricabilmente legata alla storia della sua famiglia, le cui vicende furono segnate dall’esodo forzato e dalla fuga dalle terre istriane. “Quando si avvicina il 10 febbraio, giorno del ricordo della tragedia delle Foibe, dei tanti morti e dei tanti istriani che sono dovuti scappare per non essere uccisi (tra cui mia nonna, mio padre e mia zia), mi assale la tristezza”, afferma, esprimendo la complessità emotiva di un evento che ha segnato la sua vita. Tuttavia, il racconto si arricchisce di una luce di speranza grazie alla figura di Giordano Paliaga, prozio di Riccardo, che, nonostante il rischio per la sua stessa vita, riuscì a salvare sua sorella Maria e i suoi figli, tra cui Arturo, il padre di Riccardo. Giordano, infatti, avvisò la famiglia della minaccia imminente, permettendo loro di fuggire e salvarsi dalle atrocità che si stavano consumando nelle terre istriane.
Riccardo prosegue raccontando il peso della memoria tramandata attraverso le generazioni, con il dolore che Arturo, suo padre, portò con sé per tutta la vita. “Arturo portava in sé tutto il dolore del ricordo dell’avere lasciato la sua casa natale da piccolo, la sofferenza di un padre che lo martirizzava fisicamente”, dice, descrivendo un trauma che non solo ha segnato la sua infanzia, ma che si è trasmesso alla generazione successiva. Questo dolore, accumulato negli anni, ha avuto un impatto devastante sulle relazioni familiari, soprattutto sui figli, che subirono le conseguenze delle sue ferite interiori. “Ogni giorno, tornava tardi e nervoso a casa, ci rompeva i giocattoli, ci picchiava, ci malediceva e ci umiliava”, racconta Riccardo, che ha vissuto il peso di un’eredità dolorosa, segnata dalla violenza e dalla sofferenza psicologica del padre. Solo molti anni dopo, Riccardo scoprirà la verità su quelle cicatrici invisibili, rendendosi conto che il padre, pur essendo stato costretto a lasciare la sua terra d’origine, non riusciva a liberarsi dal peso di un’identità e di una memoria che non gli permettevano di tornare nella sua città natale. “Quando leggeva la sua tessera di riconoscimento, in cui si evinceva che era nato a Pola, in Iugoslavia (ora Croazia), vedevo lo smarrimento nei suoi occhi; lui si definiva italiano e non iugoslavo”, racconta ancora Rossi, indicando un profondo conflitto identitario che ha segnato la sua famiglia e la sua infanzia.